Abatantuono, che giudice
Amori, amici, Lecce: così il lunedì si fa “giallo”
Di MICAELA URBANO
ROMA Ulivi, vigneti, rocce, mare. Pietre dure, cocciute come certi pugliesi che si credono ancora gattopardi. Eppure dorate, per via delle pagliuzze che brillano al sole, simboleggiando l’apertura verso il nuovo. E quel barocco così ridondante e ricco che contraddistingue Lecce. Bellissima, antica e contraddittoria. Persiane abbassate nella controra, la crema della città spalmata nei salotti del circolo bene. Ma anche gente che ha furia di lavorare, come al Nord. Dove fugge Diego Mastrangelo, magistrato a Milano. Dopo una trentina d’anni però, diventato sostituto procuratore, viene rispedito proprio a Lecce. E i soliti basilischi, i pensieri polverosi e testardi, ottusi quasi, che tanto bene conosce lo spingerebbro a scappare di nuovo. Ma trova anche facce nuove, cervelli intelligenti, persone amanti del passato ma tese verso il futuro, la casa in cui è cresciuto, il calore della famiglia (rappresentata dalla sorella e da suo marito), sapori e colori forti, dimenticati sotto l’anemico cielo del Nord. E vecchi amici, vecchi amori. L’amore.
Diego Abatantuono é Il giudice Mastrangelo, nell’omonima fiction prodotta da Angelo Rizzoli per Mediaset e diretta da Enrico Oldoini, popolare quanto raffinata, in onda su Canale 5 da lunedì 12 dicembre. Sei gialli scritti da Giancarlo De Cataldo (il magistrato autore di Romanzo criminale), dal brillante ed elegante Graziano Diana e da Salvatore Basile (buon professionista), che sono riusciti ad approfondire anche i personaggi comprimari e ad arricchire i racconti con il sorriso della commedia. Formula non certo d’avanguardia, d’accordo, ma di grande e non facile confezione. Imparagonabile ai brutti nipoti del Maigret di Cervi (tanti), perché tiene testa all’originale, e lo supera nei ritmi.
All’altezza gli interpreti. Bravissimo Antonio Catania, perfetta spalla del protagonista. Intensa e maturata, Amanda Sandrelli. E complimenti, tanti, anche a Vittoria Piancastelli. A Luigi Burruano. A tutti gli altri professionisti, come Dino Abbrescia.
Abatantuono? E’ Abatantuono. Un attore talmente personaggio da superare i ruoli. E, in particolare, in questo ricorda il Mastroianni di quando era il commissario Santamaria (di Fruttero e Lucentini). «Forse ho anche il suo carattere. Lavorare spesso ma il meno possibile: detesto stare sempre sul set. Meglio un giorno in meno che una settimana in più....». La tv? «Guardo quella che fanno gli amici. Ho visto persino Don Matteo perché ci lavora Insinna... Ma guardo anche Proietti, come guardavo Cervi, perchè sono grandi». Il cinema? Lo ama, da sempre, «e come fai a dimenticare i film di Totò, o Una vita difficile di Risi, e La grande guerra di Monicelli. E poi il Padrino , e Woody Allen...». E Pupi Avati, che lo volle attore drammatico in Regalo di Natale e «con cui torno a girare La cena per farli incontrare . Chi è Avati? Una parte del cinema italiano. Ma per me è come un padre».
In gennaio, invece sarà sul grande schermo con Ecceziunale veramente II. «Roba di cent’anni fa, ma che evidentemente ha segnato - speriamo - il pubblico». In effetti viene considerato un cult, «cult e stracult... Che roba è? Si mangia? Io lo chiamo successo». E intanto fa il magistrato in Puglia. Ma non è la prima volta che fa televisione: «Vero, ma è stato dopo Attila e prima del diluvio. Ancora non era nata questa industria così potente. All’epoca si chiamavano film per la tv». Ma, confessa, «col fischio», che sarebbe tornato al piccolo schermo con un lavoro qualsiasi. «Meglio riposo e famiglia che una brutta storia».
Perché Abatantuono è così, lapalissiano («ovvio direi»), perché non gliene importa nulla e non ha bisogno di usare paroloni per darsi tono. Come fece il ventenne Renato Salvatori, che si presentò sul set di Poveri ma belli con un libro sotto il braccio e Dino Risi gli chiese “Che cosa leggi?”. E lui: «Fanti e Scienza, dotto’». Perché Abatantuono è così, non ha bisogno nemmeno di ricordare quanti film ha interpretato, né di citare Salvatores o Scola. Basta la sua faccia: è cinema.
Fonte: Il Messaggero del 8 dicembre 2005.